Così mi è venuto di pensare, alla notizia, guardando quello spicchio di mare lucente del Cilento che ha legato il suo nome ad un nocchiero dalla necessaria sventura, vittima del calcolo capriccioso di un dio, e vittima, la sola, per la salvezza di molti.

Perché, per me, Vincenzo Pinto, era mare e spiaggia. Certo una spiaggia dalla sabbia nera (allora l’unica nota e concepibile), dalle cabine di legno, dagli chalet prospicienti il mare, con i pali delimitanti l’ingresso che diventavano i confini di una porta nell’incessante crepuscolo estivo. Contesa ai rastrelli dei bagnini, quell’estrema porzione di lido si trasformava in una frazione di campo dove provare moduli d’attacco dallo sviluppo ripetitivo eppure ogni volta avvincente. Uno schema semplice: un cross da un lato, qualche palleggio – eventualmente e secondo istinto e padronanza - e il tiro a provare un portiere ispirato dall’estrema morbidezza del piano di gioco ad assecondare le più funamboliche parate in risposta alle più spericolate acrobazie. Rovesciate, spaccate, estirade volanti, biciclette aeree e colpi dello scorpione decenni prima di Higuita.

Da poco più che bambino mi fermavo a contemplarli, sicuro che li avrei/ avremmo (non ero solo, come non lo si è mai nell’ infanzia) avvicendati, da lì a qualche anno. Come difatti è avvenuto. E tutto a piedi nudi, come sulle spiagge di Copacabana, palestra del calcio bailado. E Vincenzo era il più brasiliano di tutti. Con quel suo sinistro capace di disporre nell’aria traiettorie arcuate che improvvisamente si chiudevano a falce. Come solo i veri mancini sanno fare. Quelli di un tempo. Gracili misirizzi o tracagnotti dal baricentro basso, dall’opulenta natica esaltata dai pantaloncini attillati ed inguinali, come consuetudine nei sudamericani.

Solo nella pelata, Vincenzo, non appariva carioca. Non ricordo se esibisse un improbabile riporto – ma mi sento di escluderlo come opzione di realtà. – e nemmeno una nostalgica coroncina, di quelle che proteggono il coppino dai colpi di sole. Anzi, penso che una foto di Vincenzo crinito, anche in forma di memoria, abbia una valutazione da Gronchi rosa.

Mi ricordava Cubillas, nell’incipiente pinguedine. La stessa che lo accomunava al portiere, un simpatico lentigginoso, capace di voli plastici; col ciuffo, da ragazzino da film americano, che gli ricadeva sugli occhi consentendogli - al pari della presa all’ungherese - il vezzo di rimuoverlo prima di rilanciare il pallone. All’angolo, per il nuovo cross.  Non lo so, ma forse avranno già ripreso a parlarsi. Adesso. Se non l’hanno già fatto prima. Sono tanti i misteriosi percorsi che la memoria accende.

Ecco. Questo il mio primo ricordo di Vincenzo Pinto prima che ne conoscessi il nome. Prima che diventasse giornalista. Prima che lo ritrovassi, molti anni dopo, docente al “de Chirico”, ancora – e gloriosamente - Istituto d’Arte.

Quasi tre lustri fa, ma, come si dice, aveva già appeso gli scarpini al chiodo. Tanto che non partecipava a quelle nostre partite sul campo della palestra, nelle quali esibivamo una passione inversamente proporzionale al decoro di noi stessi e alla naturale decenza che si deve al mondo spettatore. Eppure ci teneva a mostrare la sua bravura nel palleggiare solo con la punta del sinistro, ovviamente, tenendo sempre la palla a non più di dieci centimetri dal suolo, come un pedestre punching ball.

“Come Mariolino Corso “– nome che non dirà nulla ai tanti abbonati a Sky, ma non alla bellezza del calcio, - usava dire e a un altro campione, aggiungeva, più recente ed eterno che sottaccio per amore di Vincenzo e del suo gusto per l’iperbole, che lo portava a sorridere per primo della blasfema comparazione. Si limitava a venire a vederci. Come quella volta che a Sorrento incontrammo (docenti, personale Ata e alunni) il liceo artistico Grandi. Solo una cosa ci chiese. Che indossassimo maglietta e pantaloncini bianchi. E voi tutti sapete perché.

Non scrisse della nostra vittoria, ma negli spogliatoi, ormai asciutto e dannunziano, si limitò a commentare che i sorrentini erano proprio scarsi. Che era il sul modo di dire: sono orgoglioso di voi. Ma noi tutti lo conoscevamo. Ne conoscevamo l’eleganza e la discrezione, quasi il pudore, nei giudizi; lo scrupoloso trasporto negli affetti; il rigore nei sentimenti. E l’orgoglio della sua terra. Che da giornalista ha raccontato. Perché Vincenzo Pinto se lo portava addosso l’odore della carta stampata. E non era per il giornale rosa arrotolato sotto il braccio.

No! Era qualcosa di più. Era il suo modo di vivere. Era il sul modo di essere. Era e tale rimane. Per me. Per tanti.

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